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Una rete di racconti

Nell'ambito del progetto Rete di parole che aveva come obiettivo quello di gar conoscere meglio il patrimonio dei Campi giovanili di ricerca e delle tradizioni orali degli sloveni in Italia, è stato redatto il libro Glih po doberduobško che contiene alcuni racconti di Doberdò, che pubblichiamo qui con il testo della traduzione e l'audio in dialetto originale.

La storia del tesoro di Gradina

Tanti tanti anni fa un giovane pastore pascolava sul Rusin Školj nei pressi del vecchio castello sulla Gradina. Il sole era già alto nel cielo. Il canto delle cicale si sentiva forte “cri, cri, cri”. Per passare il tempo il pastore con un temperino che teneva sempre in tasca, tagliò un rametto dritto e liscio di legno di orniello. Poi si sedette all’ombra e cominciò a intagliare un piffero che gli riuscì molto bene. Felice del suo lavoro cominciò a fischiettare e a cantare felice a gran voce così da farsi sentire vicino e lontano. All’improvviso si sentì un rumore lì vicino. Da sotto una roccia grigia pian piano sbucò una serpe gigantesca che strisciò fino al pastore. Quando la vide, saltò in piedi come se avesse il fuoco sotto il sedere. Il piffero gli cadde di mano e cercò di fuggire alla svelta, ma la serpe era molto più veloce. In un attimo gli si avvolse attorno alle gambe e cominciò a parlargli. Dallo spavento il pastore si sentì gelare il sangue nelle vene, non capendo se ciò che gli succedeva fosse sogno o realtà. Chiuse gli occhi per non vedere la serpe che gli faceva veramente orrore. Cominciò a pregare e a chiedere umilmente aiuto a Dio e a chiamare in aiuto la Madonna e tutti i santi affinché lo salvassero da questo orrore. La serpe gli parlò con voce suadente dicendo: “Caro il mio pastore, non aver paura. Sii mio amico. Guardami bene e ascolta ciò che ti dico, non ti farò del male. Se mi ascolterai e mi ubbidirai, ti farò felice. Non serve che tu faccia altro, solo quello che ti chiedo adesso.” Infine gli intimò di tacere e di non confidare ad anima viva quello che gli era successo. Ancora una volta gli ripeté di fare solo quello che lei gli aveva detto. Per questa buona azione sarebbe stato ricompensato. Il pastore si riprese dalla paura. Quando sentì queste parole dolci e gentili, si fece coraggio e rispose alla serpe. La voce gli tremava, per questo balbettava: “Io f-f-farò tutu-tutto quello che vuoi.” Quando la serpe sentì questa risposta, gli liberò le gambe ed alzò la testa dicendo: “Ascoltami e ricordati cosa ti dico. Domani alla stessa ora devi tornare qui, proprio in questo punto, e devi portare con te un coltello piuttosto grande. Io mi farò vedere proprio qui e mi avvolgerò attorno alle tue gambe. Tu non ti devi spaventare, non temere, prenderai il coltello e velocemente mi taglierai la testa. Con ciò mi farai un grandissimo favore, perché mi salverai dal sortilegio che mi opprime da tanti anni. Per questo ti voglio ripagare con la felicità. Ti farò ricco con i tesori grandiosi che sono nascosti qui vicino, tra queste rovine. Mi devi credere, diventerai l’uomo più ricco e felice del mondo.” Solo per potersi liberare del mostro, il pastore assicurò alla serpe che avrebbe mantenuto la parola data. In quel momento la serpe sparì scivolando sotto la roccia da cui era venuta. Il pastore dimenticò le proprie pecore e corse verso casa a gambe levate, dietro a lui si levò una nuvola di polvere. A casa non disse una parola a nessuno. Con la scusa di non avere fame andò a dormire senza cena. Non riuscì a prender sonno in alcun modo. Trascorse tutta la notte a tormentarsi e a guardare il soffitto chiedendosi cosa avrebbe potuto fare il giorno seguente. Voleva diventare ricco, Dio gli era testimone, e chi non lo avrebbe
voluto, ma la paura era stata così grande che non voleva riprovarla. Perciò decise di non tornare in quel luogo né quel giorno né mai più. Nella sua vita non guardò più verso la Gradina. Da allora fino ad oggi nessuno ha visto più la serpe infelice e parlante che chiedeva aiuto. Dicono che tanti si siano recati là e abbiano cercato e scavato a lungo per trovare il tesoro sepolto, ma fino ad oggi, per quanto si sa, nessuno è riuscito a trovarlo. Dicono che è tuttora sepolto profondamente sottoterra. Può essere che tu riesca a trovarlo, perché no?

Così fu fatto! E la salsiccia cadde nel piatto!

La storia del tesoro di Gradina

Come si è formato il lago di Doberdò

Molto tempo fa tra i monti Debeli vrh e Podreber si trovava un piccolo paesino. Lo chiamavano Doberdò. Gli abitanti di Doberdò erano gente allegra e si prendevano gioco di tutto. Arrivato carnevale, cominciò la festa. I paesani si erano mascherati, ballavano, facevano frittata con le salsicce e ovviamente bevevano tanto buon vino. Il martedì grasso venne in paese un vecchio che nessuno conosceva. Sotto l’ascella portava una botte e disse: “Finitela con questo bere e festeggiare, ben presto arriverà la quaresima, periodo in cui ci ricordiamo della sofferenza di Cristo. Guardate, sotto l’ascella ho una botte piena d’acqua. Se a mezzanotte la festa non sarà finita, allora vuoterò la botte,” disse loro per avvisarli. Tutti risero e si presero gioco di lui. Alcuni, invece, si domandarono se quest’uomo stesse dicendo la verità e nel dubbio preferirono far fagotto con le loro cose per salire verso la Rondolina. Al rintocco della mezzanotte la festa non era ancora finita. Il vecchio tenne fede al suo impegno togliendo il tappo dalla botte. L’acqua cominciò a scorrere senza fermarsi, finché non coprì tutto il paese assieme ai paesani. È così che è nato il lago ed è così che tuttora esiste. Quelli che si salvarono, costruirono in cima alla Rondolina un paese nuovo con lo stesso nome. Dicono che ancora oggi, se durante la quaresima si passa vicino al lago al mattino presto, prima che sorga il sole, si possono sentire i galli cantare e le campane suonare.

Come si è formato il lago di Doberdò

Come è nato il villaggio di Doberdò

Tanti tanti anni fa crescevano dalle nostre parti vecchie querce centenarie. Un anno l’inverno era molto molto freddo, talmente rigido, che addirittura sugli alberi si formavano delle screpolature. Sul Carso soffiava una forte bora. A Duino alla gente mancava la legna, perché dovevano tenere il fuoco acceso anche la notte per non gelare. Gli uomini si ritrovarono in osteria chiedendosi dove trovare altra legna per l’inverno. Uno ebbe una buona idea e disse: “E se andassimo nel bosco delle querce? Sì, è vero, è un po’ lontano, però abbiamo veramente bisogno della legna, se no moriremo di freddo.” Il giorno dopo, all’alba, quando era ancora buio, gli uomini si armarono di seghe e roncole e si avviarono. Camminarono ancora e ancora a lungo su e giù per le doline. Non c’erano strade, né sentieri, solo una fitta boscaglia. Quando giunsero nel bosco, cominciarono a segare e a tagliare. Legavano la legna in fascine, se le mettevano in spalla e tornavano verso casa quando rabbuiava, ma in questo modo non avrebbero resistito a lungo. La strada da percorrere era lunga e difficile, perciò decisero di restare lì tutta la settimana. Costruirono delle casette di legno per non dormire sotto le stelle. Tornavano a casa solo alla fine della settimana. Pian piano invece delle casette di legno costruirono delle case più solide di pietra carsica e tempo dopo vi si trasferirono anche le loro famiglie. Così è nato un piccolo paese. I taglialegna affermavano che questo legno di quercia è molto buono, perciò si accordarono a chiamare quel borgo Doberdob (il luogo dal legno
buono). Il borgo porta questo nome ancora oggi.

Come è nato il villaggio di Doberdò

Cristo e santo Pietro

Successe tanti anni fa, quando Cristo e San Pietro giravano il mondo. Volevano andare, dove c’erano i migliori prosciutti carsici. Ma camminando si fece sera, attorno a loro c’era solo la landa e non incontrarono anima viva. La sera si trasformò in notte. Dove avrebbero potuto pernottare? In lontananza San Pietro vide una lucina. Si avvicinarono, convinti che lì ci fosse un uomo. Cammina cammina, arrivarono ad una grande fattoria. Salutarono e chiesero di potervi trascorrere la notte. Il padrone era in imbarazzo e non sapeva cosa rispondere, poi chiamò il servo dicendogli di mostrar loro il fienile che si trovava proprio sopra la cucina. Quando i due si stesero sulla paglia, San Pietro disse intristito: “Anche oggi senza cena.” Cristo invece tacque perché era molto stanco e si addormentò subito dopo. San Pietro sentiva ciò che si dicevano sotto in cucina. “Adesso possiamo cenare in pace,” disse il padrone. In quel momento San Pietro notò una fessura nel pavimento dalla quale si vedeva provenire una luce. Ci guardò attraverso e su un tavolo vide un grande prosciutto e una pagnotta di pane fatto in casa. Gli venne l’acquolina in bocca e scosse Cristo per le spalle: “Signore, guarda quanta bontà!” Cristo guardò, rifletté e disse: “Saranno per sempre assetati, perché l’acqua non ci sarà!” In quel momento si prosciugarono tutte le sorgenti e per questo sul Carso ancor oggi non c’è abbastanza acqua.

Cristo e san Pietro

Storia del sarto

C’era una volta un sarto. Era l’unico sarto in paese, perciò aveva sempre molto lavoro. Siccome nel fine settimana c’era la festa paesana, tutti i ragazzi venivano da lui per farsi cucire un vestito nuovo. Quindi cuciva e cuciva dalla mattina alla sera. Un giorno venne da lui la morte, lo salutò e gli disse: “Caro il mio sarto, la tua ora è giunta. Molla tutto e vieni con me.” Il sarto cominciò a pregarla: “Aspetta un po’, cara morte. Non vedi quanto lavoro ho da fare? Presto ci sarà la festa in paese e devo finire tutti questi vestiti.” La morte si impietosì, se ne andò e gli promise di tornare presto. In effetti dopo pochi giorni tornò e chiese al sarto se avesse finito con il lavoro, ma lui stava cucendo ancora ed ancora. Nel frattempo aveva ricevuto altri ordini ed era oberato di lavoro. Di nuovo pregò la morte se poteva aspettare un po’. Di nuovo la morte gli esaudì il desiderio e se ne andò. Dopo un po’di tempo tornò. Trovò il sarto sempre lì, seduto a cucire ancora ed ancora. “Non hai ancora finito? Ti aspetto da tanto. La tua ora è giunta e devi venire con me.” Il sarto le rispose: “Sì, cara morte, se non mi avessi disturbato di continuo durante il lavoro, avrei già finito.” La morte guardò quello che stava facendo e vide che il sarto aveva messo nella cruna dell’ago un pezzo corto di filo, cuciva pochi centimetri di tessuto e poi doveva nuovamente infilare un altro pezzo di filo. “Aspetta, aspetta! Tu mi stai prendendo in giro!” esclamò la morte. “Perché infili nell’ago un filo così corto? Così non finirai mai più! Stai solo prendendo tempo! Ti mostrerò io, come si cuce!” Prese un ago, vi infilò un filo molto lungo, talmente lungo che non lo si poteva stendere, perciò per farlo dovette uscire dalla finestra. Steso il filo, ritornava all’interno, faceva un punto e riusciva dalla finestra. Così la morte saltellava - dentro e fuori, dentro
e fuori… Il sarto aveva in effetti tanto lavoro che questo saltellare, far rumore e respirare con affanno lo disturbava molto. Vide che la morte diventava sempre più stanca da non poterne più, perciò lui all’improvviso si alzò e chiuse la finestra. La morte così restò chiusa fuori. Molto offesa, se ne andò dicendo fra sé e sé che non sarebbe ritornata mai più da questo sarto. Il sarto visse ancora a lungo cucendo e cucendo. Era felice che la morte non lo vedesse al lavoro. Quando finiva un ordine ne arrivava uno nuovo. I giorni passavano e il sarto invecchiava. Non cuciva più, perciò si annoiava e desiderava morire. Aspettava che la sua amica morte venisse a prenderlo, ma lei non arrivava. Stava seduto davanti alla casa e guardava la luna che rideva di lui. Un giorno si arrabbiò e ci saltò sopra. E ancora oggi quando la luna è piena puoi vedere il sarto sulla luna che ride.

Storia del sarto

La gazza vanitosa

C’era una volta un contadino che viveva vicino al bosco; il posto si chiamava Čerenci vicino a Vrh. Lì c’era un grande bosco dove volavano le gazze. Il contadino aveva tanto pollame ed anche un pavone vanitoso che si pavoneggiata per le sue belle penne su e giù per il cortile. All’improvviso arrivò in volata la gazza, vide il pavone e pensò come avrebbe potuto avere quelle penne d’oro. Subito atterrò in cortile, attaccò il pavone e lo spennò. Si ricoprì poi delle sue penne dorate, rimirandosi di come fosse scintillante e brillante. Felice volò dalle sorelle, tronfia di essere più ben vestita di loro. Invece era il contrario. Quando le sorelle la videro, si sentirono offese e si misero d’accordo: “Tagliamole tutte le penne del pavone!” E così la attaccarono, la spennarono e le strapparono anche le sue di penne, così quella povera gazza rimase completamente spennata. Questo succede a chi si fa grande, ma rimane piccolo. Che vi sia d’esempio, bambini, la gazza vanitosa!

La gazza vanitosa

Questa è una storia vera
(della Šjora Nina)

Tanti, tanti anni fa viveva a Doberdò una forestiera che si chiamava Nina. A quei tempi la gente si scaldava solo con la legna. Le donne andavano a raccattare legna in giro per la landa e i boschi. Quando raccoglievano la legna, la legavano in fascine con uno spago o un filo di ferro. Le mettevano in testa per portarle a casa. Un giorno la signora Nina, per non faticare troppo, prese un carretto e andò a raccoglier legna a Jamiano. Lasciò il carretto sulla strada e andò a tagliar legna in una dolina. Arrivò il padrone, prese il carretto e se lo portò a casa. Quando la signora Nina tornò, non trovò più il carretto. Tutta triste tornò a casa senza carretto e senza legna. Quando gli abitanti di Doberdò lo vennero a sapere, composero una canzoncina e la cantavano per deriderla.

Questa è una storia vera

Bertoldo

C’era una volta una mamma che aveva un figlio di nome Bertoldo. Una bella domenica la mamma disse a Bertoldo: “Senti, Bertoldo, io vado a messa, tu nel frattempo prepara
il brodo per pranzo. Prendi una pentola, mettici la carne e un po’ di prezzemolo.” “Va bene, mamma,” rispose Bertoldo. La mamma andò a messa. Bertoldo di buona lena prese una grande pentola, ci mise dentro la carne e la appese sulla catena del focolaio. Poi uscì in cortile, prese il cane che si chiamava Prezzemolo e lo mise a cucinare in pentola. Dopo un po’ la mamma tornò dalla messa. Quando vide cosa aveva fatto Bertoldo, si prese la testa fra le mani e disse tutta disperata: “No, Bertoldo, non il cane, ti ho detto di metterci il prezzemolo nel brodo!” “Lo saprò per la prossima volta, lo saprò per la prossima volta!” rispose Bertoldo. La domenica dopo la mamma disse a
Bertoldo: “Senti, Bertoldo, ora sei già grande. Sarebbe ora che ti trovassi una ragazza, perciò io oggi resto a casa e tu vai a messa. Sai come vanno queste cose! Durante la messa butta gli occhi sulle ragazze!” “Va bene, mamma, va bene!” disse Bertoldo. Si mise il vestito buono e andò nella stalla. Cavò gli occhi a tutte le pecore, si riempì le tasche e andò a messa. Durante la predica tirò fuori dalle tasche gli occhi delle pecore e cominciò a gettarli sulle ragazze. Le ragazze si spaventarono, cominciarono ad urlare e scapparono dalla chiesa. Quando Bertoldo tornò a casa, la madre gli chiese come fosse andata. “Quando ho cominciato a buttare gli occhi delle pecore, tutte le ragazze sono fuggite dalla chiesa,” disse la verità Bertoldo. La madre, tutta disperata, disse: “No, Bertoldo, non gli occhi delle pecore! Io intendevo di osservare le ragazze, forse qualcuna ti sarebbe piaciuta.” “Lo saprò per la prossima volta, lo saprò per la prossima volta!” rispose Bertoldo. Passarono alcuni giorni. La madre chiamò Bertoldo e lo mandò a comprare gli aghi. Bertoldo ubbidì e ci andò. Mentre tornava verso casa, vide un carro di fieno. ‘Perché dovrei camminare quando posso farmi portare’, pensò Bertoldo. Non ci pensò due volte, prese gli aghi, li buttò sul carro, vi montò sopra e si fece portare a casa. Quando poi volle riprendersi gli aghi, non li trovò più. Arrivato a casa, la madre gli chiese dove fossero gli aghi. Bertoldo le raccontò cosa fosse successo. “No, Bertoldo, no! Gli aghi dovevi appuntarteli sul panciotto e non buttarli sul carro!” “Lo saprò per la prossima volta, lo saprò per la prossima volta!” rispose Bertoldo. Il giorno dopo la madre lo mandò a raccogliere della legna. Bertoldo andò, raccolse la legna e di buona lena, come gli aveva detto la mamma, infilò la legna nel panciotto. Tutto felice tornò a casa. Quando la madre lo vide, gli spiegò: “Non così! La legna si lega in una fascina, si mette in testa e si porta a casa.” Due giorni dopo la madre lo mandò a comperare un mastello di legno. Bertoldo lo ruppe, legò i pezzi di legno in una fascina e tornò a casa. “No, Bertoldo, non così! Si prende un bastone, lo si infila attraverso le maniglie a forma di orecchio del mastello e si porta il mastello a casa.” “Lo saprò per la prossima volta, lo saprò per la prossima volta!” rispose Bertoldo. Nel paese vicino c’era il mercato. La madre mandò Bertoldo a comprare un maiale. Bertoldo si preparò e andò al mercato, dove comprò un maiale, gli infilzò un bastone nelle orecchie e lo trascinò verso casa. La madre di nuovo gli insegnò: “Al maiale la corda si deve mettere attorno al collo per portarlo a casa.” “Lo saprò per la prossima volta, lo saprò per la prossima volta!” rispose Bertoldo. Al sabato lo mandò a comperare la carne. Bertoldo legò la carne con uno spago e la trascinò per strada verso casa. Povera la mamma, non sapeva più che fare! Un giorno la mamma rimase senza aceto e olio, perciò mandò Bertoldo in negozio. Il bottegaio gli chiese: “Dove metto l’olio?” Bertoldo ci pensò su, poi si tolse il berretto dalla testa e disse: “Versalo qui!” “E l’aceto, dove lo metto?” chiese di nuovo il bottegaio. Bertoldo girò il berretto e disse: “Su questo lato!” e tutto felice tornò a casa. Quando arrivò a casa, la mamma gli chiese: “Dove hai messo l’aceto?” Bertoldo mostrò l’aceto nel berretto. “E l’olio, dov’è?” chiese la madre. Bertoldo girò il berretto: “È qui!” rispose. Così non c’erano né olio né aceto. “Oh, povera me, povera me!” si lamentò la madre.

Variante 1: Un giorno la madre andò a lavorare nei campi. Bertoldo restò a casa da solo e non sapeva cosa fare. Vide i fiammiferi e cominciò ad accenderli uno ad uno. La casa prese fuoco e bruciò, recuperarono solo la porta.

Variante 2: La domenica seguente la madre andò di nuovo a messa, lasciando Bertoldo a casa e ordinandogli di accendere il fuoco, così appena tornata dalla messa avrebbe cucinato il pranzo. Bertoldo era maldestro e fece un fuoco troppo grande, così la casa prese fuoco. Bertoldo corse in chiesa e cominciò a ripetere – come gli aveva raccomandato la mamma – a bassa voce: “La casa brucia, la casa brucia!”. Tutti in chiesa lo sentirono e corsero a vedere, di chi era la casa che stava bruciando, invece la mamma di Bertoldo non lo sentì e rimase a messa fino alla fine. Quando arrivò a casa, la casa non c’era più, rimase solo la porta.
Conclusione: A quel punto i due non sapevano dove andare a vivere. Si era fatto buio e si arrampicarono su un albero che cresceva lì vicino. Si trascinarono dietro la porta, posizionandola sull’albero, come se fosse la porta d’entrata della casa sull’albero. Una notte i briganti si fermarono sotto l’albero, si sedettero e cominciarono a dividersi il denaro. Bertoldo doveva far pipì, ma la mamma gli disse di trattenerla. Dopo un po’ di tempo Bertoldo disse: “Mamma, io non riesco più a tenerla!” La mamma ci pensò e rispose: “Allora mollala!” Bertoldo lo fece e i briganti si girarono verso l’alto, uno di loro
disse: “Sta piovendo!” e continuarono a dividersi il denaro. Poi Bertoldo doveva fare la cacca. La mamma gli disse di pazientare un po’, finché i briganti se ne fossero andati. Bertoldo pazientò per un po’, poi disse: “Io non riesco più a tenerla!” “Allora mollala!” disse la mamma e Bertoldo lo fece. I briganti esclamarono: “Sta cadendo la manna, cade la manna!” e continuarono a dividersi il denaro. Poi cadde dall’albero anche la porta. Bertoldo, nel voler afferrare la porta, cadde tra i briganti che si spaventarono e cominciarono a scappare a gambe levate, anche se sotto l’albero avevano dimenticato il denaro. Bertoldo li inseguì, li acchiappò e ad uno ad uno tagliò loro la lingua. Così loro riuscivano solo a biascicare: “Li, li, li,” e scappavano a tutta velocità. Correvano talmente veloci che dietro a loro si alzava una nuvola di polvere. Non si presentarono mai più. Bertoldo e la sua mamma raccolsero tutti i soldi dei briganti e diventarono molto molto ricchi. Costruirono una nuova casa e vissero per lunghi lunghi anni.

 

Così fu fatto! E il cucchiaio cadde
nel piatto!

Bertoldo

Il contadino e le verze

Un contadino portava verso casa una carriola piena di verze. Camminando inciampò su una pietra e cadde. La carriola si rivoltò, le verze di sparsero dappertutto, ognuna delle teste di verza in una direzione. Il contadino osservò le verze, si grattò la testa e disse: “Eh, ogni testa pensa per sé!”

Il contadino e le verze

Questa storia dura a lungo ancora

Filastrocca rimata
C’erano una volta un signore e una signora. Questa storia dura a lungo ancora. Vado avanti? (Se l’ascoltatore dice di sì, si ricomincia dall’inizio.) C’erano una volta un signore e una signora. Questa storia dura a lungo ancora (avanti all’infinito).

Questa storia dura ancora a lungo

I ladri e le noci

C’erano una volta due ladri che andavano a rubare le noci. Si riempirono un fagotto pieno di noci e poi volevano dividersele. Per dividersele in pace andarono al camposanto. Saltando oltre il muro, due noci caddero dal fagotto per terra. Al camposanto slegarono il fagotto e cominciano a dividere i frutti rubati: “Uno a me, uno a te.” In quel momento passò lì vicino al camposanto il sagrestano che andava a suonare le campane di richiamo alla sera. Sentì i ladri contare; corse dal parroco e gli raccontò cosa aveva sentito al camposanto. Insieme i due si recarono al camposanto e si misero ad ascoltare sotto il muro. Siccome i ladri avevano finito di dividersi i frutti rubati, uno di loro disse: “Adesso andiamo a prendere ancora quei due che sono sotto al muro.” Lui si riferiva ai due frutti caduti dal fagotto, mentre il parroco e il sagrestano credettero che si riferisse a loro due, così scapparono a gambe levate facendo tanta polvere dietro di sé.

I ladri e le noci

Caro il mio ignazio

Una madre e un padre avevano un figlio unico di nome Ignazio. Lo mandarono in seminario, in città, a studiare da prete. Lì doveva studiare tutto l’anno anche il latino,
d’estate durante le vacanze ritornava a casa. Volle dimostrare che aveva imparato a parlare da persona dotta, così a tutte le parole in fondo aggiungeva “us”. Ciondolava qua e là con il libro in mano e non faceva nulla. Il padre lo esortava a lavorare, ma il figlio faceva orecchie da mercante. Un giorno il padre si arrabbiò e disse al figlio: “Caro il mio Ignatius, prendi il forconus, vai nella stallus a spalare il letamus!”

Caro il mio Ignazio

L'uomo che rubava le patate

C’erano una volta marito e moglie, che erano molto poveri come i topi in chiesa e non avevano neppure da mangiare. Una sera il marito decise di andare a rubare le patate in
un campo lì vicino. Quando si fece buio pesto, prese un sacco e una vecchia carriola, tutta sgangherata e rotta, e andò in quel campo. La carriola era tutta arrugginita e la ruota cigolava perché non era lubrificata. Al marito sembrava che dicesse: “No sta’ andar, non sta’ andar!” Quando arrivò nel campo, era già buio pesto e non si vedeva nulla. L’uomo tastava con le mani attorno a sé, sentì sotto le mani il campo di patate e cominciò a tirarle fuori dal terreno. In quel momento cominciò a piovere e c’erano tuoni e fulmini. L’uomo sperava di vedere meglio dove rubare le patate con i lampi che ogni tanto illuminavano il campo. Quando aveva quasi riempito il sacco di patate, disse: “Oh Dio, manda ancora un lampo!” Allora arrivò il proprietario e gli diede una mazzata forte
sulla schiena con un grosso bastone. L’uomo afferrò la carriola e cominciò a correre verso casa, quanto più velocemente poteva. La carriola cominciò a cigolare forte e gli sembrò che dicesse: “Te go dit’, te go dit’!”

L'uomo che rubava le patate

Già che sei bagnata

All’imbrunire un uomo tornava dal lavoro. Pioveva a dirotto e perciò era fradicio, come si dice, dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi. Proprio in quel momento la moglie aveva bisogno di andare a prendere dell’acqua. Allora non c’era acqua nelle case come oggigiorno, in paese c’era solo un pozzo in strada al centro del paese. La moglie aprì la porta e davanti a sé vide il marito completamente fradicio. Non curandosene gli passò il secchio e gli disse: “Già che sei bagnato, vai a prendere l’acqua!” Il marito la guardò storto, non disse niente, prese il secchio e andò a prendere l’acqua. Quando lei lo vide dalla finestra che stava tornando, lo andò ad aspettare vicino alla porta. Quando il marito venne alla porta, vuotò il secchio in testa alla moglie e disse: “Già che sei bagnata, vai tu ora a prendere l’acqua!”

Già che sei bagnata
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